Le opzioni terapeutiche tra chemioterapia e terapie a bersaglio molecolare nei NET

La terapia dei tumori neuroendocrini recentemente sta mostrando delle rapide evoluzioni, soprattutto per ciò che riguarda le forme  non resecabili e metastatiche. E' ben noto, infatti, che per le neoplasie neuroendocrine localizzate  l'approccio chirurgico rappresenta l'opzione di scelta, impattando contemporanemente sulla sopravvivenza, sulla qualità di vita e, per le neoplasie funzionanti, anche sul controllo dei sintomi. 

Per le forme avanzate  invece, pur essendo uniformemente accettato il ruolo della chemioterapia nelle neoplasie neuroendocrine indifferenziate,  siano esse inoperabili o metastatiche, le opzioni terapeutiche per le forme più differenziate sono diverse e non gestibili in maniera sequenziale in un percorso standard, nonostante gli sforzi fatti finora nel definire  linee guida che possano essere di orientamento nelle scelte diagnostico-terapeutiche. Infatti ancora oggi in molti casi è possibile far riferimento ad opzioni fornite solo da dati con livelli di evidenza appena accettabili.  

Tali opzioni, infatti, molto spesso sono dettate dalla specifica preparazione del professionista o anche in base alle risorse offerte al paziente dall'istituzione che lo ospita. Così ritroviamo nelle forme inoperabili e metastatiche via via proposte le diverse strategie terapeutiche: la chirurgia, che difficilmente riesce ad avere un ruolo curativo in questo setting di pazienti e ha di solito per le forme avanzate un ruolo importante nel debulking e nel controllo dei sintomi; la terapia locoregionale, con la radiofrequenza, l'embolizzazione, chemioembolizzazione, radioembolizzazione; la terapia medica con la chemioterapia , le terapie biologiche , ivi compresi gli analoghi della somatostatina, l'interferone alfa e le terapie a bersaglio molecolare come inibitori mTOR, gli inibitori di VEGFr  e altre TKIs. Infine, la terapia radio recettoriale (PRRT) con 90Y-DOTATOC, 177Lu- DOTATATE, di importanza sempre maggiore negli ultimi tempi,  o la radioterapia per il controllo del dolore, nelle metastasi ossee o cerebrali.

In ogni caso, comunque, qualsiasi decisione terapeutica nei confronti dei NET non potrà prescindere dalle  considerazioni riguardanti l'istologia del tumore, il TNM, il grading, il livello di coinvolgimento epatico, il  performance status, la disponibilità di diversi approcci terapeutici, se si tratta di neoplasia funzionante o non funzionante.

L'utilità della chemioterapia nel trattamento dei NET risale a molti anni fa. Nel 1991 infatti, Moertel pubblicò su Cancer la sua esperienza. Testò l'efficacia della combinazione del cisplatino (CDDP) + fluoro uracile (5FU) in 45 pazienti affetti da neoplasia neuroendocrina ben e poco differenziata, riportando nei NET scarsamente differenziati un RR del 67% e una durata della risposta di circa 18 mesi. Il  regime utilizzato si dimostrò poco attivo invece nei NET ben differenziati.

Lo studio fu ripreso poi nel 1999 da  Mitry e Baudin su The British Journal of Cancer. In questo studio su 53 pazienti con lo stesso regime fu ottenuto un RR del 41 % nei pz con NET poco differenziato e del 9 % in quelli ben differenziati e con una durata mediana della risposta di circa 9 mesi. La combinazione di  CDDP + Etoposide (VP16) che trova indicazione nelle forme a rapida crescita e in progressione dopo terapie meno aggressive e meno tossiche, resta il trattamento di scelta per i NET indifferenziati, nonostante tutti i  limiti. Infatti, gli studi clinici descritti restano comunque di scarsa consistenza statistica e basati su  una metodologia che oggi considereremmo inadeguata ed inaccettabile. La prognosi di questi pazienti rimane comunque negativa con una sopravvivenza mediana a 2 anni di circa il 20%.

I principi che confermano l'uso della chemioterapia nelle neoplasie neuroendocrine ben differenziate poggiano sui risultati ancora più datati rispetto ai precedenti. Sempre Moertel infatti pubblicò nel 1980 e poi nel 1992 due trial clinici che confermarono l'efficacia della streptozocina da sola o in combinazione con 5FU. L'esperienza fu ripresa poi più recentemente da Koravwaki nel 2004, aggiungendo alla streptozocina (STZ) e al 5FU anche la doxorubicina . Il response rate (RR) variava dal 39% al 63 % e la mediana di overall serviva (mOS) da 26 a 37 mesi.  Anche in questo caso i criteri di significatività statistica degli studi non sono rispettati e la stessa valutazione delle risposte obiettive spesso non ha tenuto conto del diametro delle lesioni metastatiche , ma di parametri ben più vaghi come l'epatomegalia e il livello di biomarcatori in circolo. Nonostante tutto, l'FDA ha ritenuto di approvare la combinazioni a base di STZ per i NET ben diff. Lo schema di trattamento però non ha mai ricevuto l'unanime consenso della comunità scientifica sia per la tossicità della streptozocina sia la difficile reperibilità e la scarsa disponibilità  del farmaco, prodotto peraltro solo negli USA .

La storia della chemioterapia nei NET ben differenziati è rimasta così  ferma, senza nuovi e significativi progressi, per almeno un trentennio e il primo trial che sembra poter modificare tali prospettive è lo studio pubblicato da J. R. Strosberg su Cancer 2011. In questo studio 30 pazienti affetti da NET a sede pancreatica furono trattati con capecitabina e temozolomide. Una combinazione accattivante nella sua maneggevolezza e semplice nella "struttura". Due farmaci appartenenti alle fluoropirimidine e agli alcalanti (come il fluorouracile e la vecchia dacarbazina) venivano combinati con la schedula classica dei 14 gg il primo e dei 5 gg il secondo. I risultati sono stati molto incoraggianti con il 70% di RO valutate radiologicamente, 18 mesi di mPFS, una mOS a 2 anni del 92%, con un ottimo profilo di tollerabilità .

Per quanto concerne il ruolo della chemioterapia tra le opzioni terapeutiche dei NET pancreatici, bisogna sottolineare che benchè i regimi contenenti streptozocina sono stati approvati dall'FDA circa 30 anni fa senza però ottenere il favore della maggior parte dei clinici sia a causa della tossicità correlata sia per la scarsa disponibilità del farmaco, l'associazione temozolomide + capecitabina per la sua maneggevolezza e per la buona tollerabilità, pur non essendo approvata dall'FDA, sta diventando lo schema di trattamento più diffuso, La possibilità di continuare ad utilizzare la temozolomide in questo setting di pazienti e di poter rafforzare in questo modo le esperienze iniziali di Strosberg, aprirà nuovi scenari sull'opportunità di selezionare mediante la tipizzazione della metilguaninametil-transferasi i pazienti responsivi da quelli biologicamente resistenti al farmaco, per i quali si potrà così evitare un trattamento inutile.

In definitiva, è necessario lo sviluppo di nuovi trial clinici che possano offrire non solo trattamenti ben tollerati ed efficaci, ma anche che abbiano un reale impatto sulla sopravvivenza dei pazienti.  

La vera evoluzione della terapia dei tumori neuroendocrini si è avuta solo di recente, con l'acquisizione di nuove informazioni circa l'azione degli analoghi della somatostatina e dell'octreotide in particolare e con l' approvazione da parte del FDA e dell'EMEA  di molecole a berdaglio molecolare come l'everolimus o di inibitori dell'angiogenesi come il sunitinib nel trattamento dei pNET.

L'uso degli analoghi della somatostatina nel trattamento dei NET data ormai da anni e poggia su un solido razionale. I recettori della somatostatina infatti sono presenti su tutti gli istotipi dei NET (50-100% dei campioni istologici nell'ambito di diversi studi), ben rappresentati in tutte le isoforme, ad eccezione dell'isoforma sstr3, poco espressa.  Delle 5 isoforme la più uniformemente diffusa nei NET è sicuramente la sstr2, che peraltro sembra essere quella maggiormente coinvolta nel meccanismo di azione della somatostatina naturale e dei suoi analoghi. La sstr2 e la sstr 5 sono state identificate nel 80-90% dei pNET

Gli analoghi della somatostatina (SSA) sono  rappresentati prevalentemente dall'octreotide acetato e dalla lanreotide, sono molecole proteiche di sintesi, più corte di quella naturale, ma dotate di un'emivita molto più lunga e di un'affinità di legame molto spiccata per le isoforme sstr 2 e 5.

Sono ancora in corso studi clinici sulla pasireotide , un altro analogo della somatostatina attivo su un numero maggiore di isoforme rispetto alle precedenti e che a differenza dell'octreotide non determinando l'internalizzazione del complesso ligando-recettore sst2 presenterebbe un'emivita ancora più lunga.

Gli analoghi della somatostatina attualmente sono indicati sia dalla FDA che dall'EMEA nella sindrome da carcinoide dei NET . Quindi, in definitiva, gli ssta troverebbero nei NET l'unico spazio nella palliazione dei sintomi, senza alcun impatto sulle risposte obiettive e soprattutto sulla sopravvivenza. In effetti, l'azione degli analoghi della somatostatina realmente ha impattato sulla qualità di vita dei paziente affetti da sindrome da carcinoide, ma potremmo affermare che indirettamente essi hanno migliorato la sopravvivenza dei pazienti. Basti pensare alle diarree gravi e resistenti che si presentavano in passato e che portavano ad exitus il paziente per grave shock ipovolemico, o le frequentissime insufficienze cardiache da carcinoide ridotte dell'80% dopo l'introduzione degli ssta nella terapia dei NET.

In realtà, sta prendendo sempre più corpo l'ipotesi di un'azione antiproliferativa diretta degli analoghi della sst. Gli effetti antiproliferativi diretti si aggiungerebbero a quelli indiretti basati principalmente sull'inibizione di alcuni ormoni come il GH e del suo metabolita più attivo come IGF-1, uno dei principali induttori della proliferazione cellulare tissutale.

Tale ipotesi era già in parte dimostrata da studi in vitro che sottolineavano un'azione degli analoghi nell'inibire la crescita e la proliferazione cellulare, di promuovere l'apoptosi attraverso pathway di segnali ben precisi. La letteratura scientifica suggerisce che questi effetti diretti fossero mediati dal PI3K/mammalian target of rapamicina (mTOR) , dal mitogen-activated protein kinase (MAPK), e Ras/extracellular signal-regulated kinase.

Molti studi sono stati sviluppati per dimostrare un'azione antitumorale diretta degli analoghi della sst, soprattutto nel setting di pazienti con GEP-NET. Naturalmente erano tutti studi volti a dimostrare quest'effetto in termini di beneficio sulla PFS.

Purtroppo però gli studi, non solo  piccoli e  monocentrici, ma neanche controllati o randomizzati, erano con casistica povera e disomogenea per sito di malattia per caratteristiche biologiche e per precedenti terapie effetuate.  Nello studio PROMID invece sono stati reclutati 85 pazienti con diagnosi di tumore neuroendocrino ben differenziato a partenza intestinale localmente avanzato, non resecabile o metastatico. Si tratta di uno studio di fase III dove i pazienti sono stati randomizzati a ricevere Octreotide LAR 30 mg im / 28gg fino a progressione o morte oppure Placebo. L'endpoint primario era la mPFS e gli endpoint secondari erano Response Rate, il controllo dei sintomi e Overall Survival. La novità dello studio era che mai finora era stato studiato l'impatto dell'octreotide sulla sopravvivenza in maniera prospettica. Sebbene lo studio fosse programmato per reclutare 162 pazienti, in seguito ad un'analisi ad interim con 85 pazienti, lo studio fu chiuso in anticipo. I pazienti erano ben distribuiti e ben bilanciati in base alle loro caratteristiche demografiche. L'attività antiproliferativa del farmaco fu ampiamente dimostrata con una mediana del tempo alla progressione (mTTP) di 14,3 mesi per il braccio Octreotide LAR e 6 mesi per il braccio placebo, con una riduzione del rischio di progressione tumorale del 66%. Dopo 6 mesi la progressione tumorale era stata verificata nel 53% dei pazienti trattati con placebo e nel 24% dei pazienti trattati con Octreotide LAR 30 mg, così come la SD era stata valutata nel 67% dei pazienti Octreotide trattati rispetto al placebo. L' analisi dei sottogruppi ha dimostrato che Il vantaggio del trattamento con l'analogo era evidente in tutti i sottogruppi di pazienti studiati, sia con tumore funzionante che non funzionante, a tutte le età con livelli elevati e bassi di biomarcatori. Le uniche categorie che sembravano trovare un più marcato beneficio dalla somministrazione di Octreotide LAR tradotto in una percentuale più alta di SD erano i pazienti con un coinvolgimento epatico < al 10% e coloro che si erano sottoposti ad una resezione primaria.

Nonostante l'impossibilità per questo studio di valutare correttamente l' overall survival. in quanto il' 77% dei pazienti del braccio placebo ha ricevuto mediante crossover l'Octreotide LAR, il PROMID ha ottenuto dal National Comprehensive cancer Network (NCCN) l'inserimento dell'octreotide come farmaco di riferimento non soltanto nelle sindrome da carcinoidi dei tumori neuroendocrini gastroenteropancreatici (GEP-NET) ma anche nelle forme asintomatiche. Inoltre in considerazione dell'ottima tollerabilità del farmaco, l'octreotide si conferma come il partner ideale per diverse strategie di combinazione. In molte esperienze, infatti, l'analogo della somatostatina è stato testato in associazione a terapie locoregionali, a terapia radiometabolica, a chemioterapia, e recentemente anche a terapie a bersaglio molecolare come l'everolimus.

In particolare, l'utilizzo di everolimus nell'ambito delle neoplasie neuroendocrine trova un razionale proprio nel suo specifico meccanismo d'azione, basato sull'inibizione dell'mTOR. L'mTOR (mammalian target of rapamycin) è una serina-treonine kinase e fa parte del pathway del PI3-Kinase/AKT/mTOR di estrema importanza nella regolazione della sopravvivenza e proliferazione cellulare. .  Esso inoltre media la trasmissione del segnale per alcuni recettori dei fattori di crescita come il recettore per l'IGF e dell'EGFr. Pur non  conoscendo i dettagli della patogenesi molecolare, è possibile affermare che lo sviluppo dei tumori neuroendocrini pancreatici sporadici è legato a numerose sindromi neoplastiche genetiche che coinvolgono il pathway di mTOR  come la sclerosi tuberosa, la neurofibromatosi e la malattia di von Hipple-Lindau.

Le premesse quindi per una combinazione tra everolimus ed ocreotide risiedono nell'osservazione che i NETs a basso grado esprimono sia IGF-1 c he il suo recettore IGF-1R e che mentre  l'IGF-1 promuove la proliferazione cellulare attraverso l'attivazione di mTOR, l'inibizione stessa di mTOR potrebbe sopprimere la crescita e lo sviluppo di cellule neuroendocrine tumorali. Inoltre, l'octreotide,  riducendo i livelli plasmatici di IGF-1, blocca lo sviluppo di un possibile meccanismo di resistenza all'everolimus.

Così, in RADIANT-2, uno studio di fase III, in doppio cieco, 429 pazienti affetti da tumore neuroendocrino ben o moderatamente differenziato, localmente avanzato o metastatico, sintomatici, perfettamente bilanciati nelle loro caratteristiche demografiche, sono stati randomizzati a ricevere la combinazione Everolimus 10 mg/die con Octreotide LAR 30mg/28 gg oppure octreotide LAR 30 mg/28 gg più placebo. Lo studio ha dimostrato un netto vantaggio della combinazione everolimus + octreotide rispetto all'octreotide + placebo in termini di mPFS (rispettivamente 16,4 mesi vs 11,3 mesi). L'analisi dei sottogruppi ha sottolineato come tale vantaggio fosse evidente in tutte le categorie di pazienti, indipendentemente dall'età , dal PS, dal sesso, dall'istotipo, dalla sede primitiva e dai trattamenti precedenti. In termini di tollerabilità,  le tossicità registrate non sono risultate diverse da quelle note per ogni singolo farmaco, con stomatitie rush e fatigue, iperglicemia e infezioni polmonari.

L'everolimus in particolare ha dimostrato di incrementare la mPFS in pazienti con tumore neuroendocrino pancreatico avanzato e metastatico anche da solo, come singolo agente. Nello studio radiant-3, infatti, 410 pazienti sono stati randomizzati a ricevere everolimus o placebo, entrambi insieme alla best supportive care (BSC).   La mPFS è risultata di 11,0 mesi con everolimus e di 4,6 mesi con placebo e si è osservata una riduzione del 65% del rischio stimato di progressione o di decesso. Il beneficio in termini di PFS offerto dall'everolimus si è dimostrato durevole con un PFS a 18 mesi del 34% nei pazienti trattati con everolimus rispetto al 9% di quelli trattati con placebo e distribuito uniformemente nei vari sottogruppi studiati, indipendentemente dalle caratteristiche cliniche e domografiche. I dati relativi alla mPFS sono stati confermati anche dalla valutazione centrale indipendente, secondo cui la mPFS era di 11,4 mesi per i pazienti trattati con everolimius e di 5,6 mesi per il gruppo trattato con placebo. Con il 73% di SD, è evidente che che il principale effetto dell'everolimus si è tradotto in un a stabilizzazione di malattia e minore incidenza di progressione.

Gli eventi avversi non sono risultati differenti da quelli noti che si verificano durante il trattamento con everolimus in altre patologie. Gli eventi avversi legati al farmaco sono risultati prevalentemente di grado 1 o 2, rappresentati da stomatite, rash cutaneo, diarrea e infezioni delle alte vie respiratorie. Invece, gli eventi di grado 3 o 4  più frequenti con everolimus rispetto al placebo sono risultati l'anemia e l'iperglicemia.  

Circa il 73% dei pazienti inizialmente randomizzati nel gruppo placebo sono passati a everolimus in aperto, determinando così un evidente biass nella definizione del beneficio in termini di OS. (con oltre il  60% crossover rates)

I tumori neuroendocrini sono neoplasie ampiamente vascolarizzate e i GEP-NET in particolare hanno mostrato in diverse esperienze l' iperespressione di vascular endothelial growth factor (VEGF). Perciò l'idea di utilizzare terapie antiangiogenetiche nei NET è risultata molto accattivante. Oltre a studi con il bevacizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato antiVEGF, sono stati sviluppati studi con le piccole molecole in grado di inibire i domini del recettore delle tirosino kinase del VEGFr, come il sunitinib, il sorafenib, l'imatinib, la thalidomide e l'endostatina.

Sunitinib è un inibitore multitarget della chinasi orale che inibisce FTL3, VEGFR1, 2 e PDGFR-e a - b ,   KIT RTK. Gli effetti antitumorali consistono nell'inibire RTK-Is  che sono espressi non solo su diverse linee di cellule tumorali, ma anche in cellule stromali ed endoteliali e sono impegnati nel processo di carcinogenesi.

In 171 pazienti affetti da pNET ben differenziato avanzato e/o metastatico è stato studiato in uno studio di fase III l'effetto di sunitinib alla dose di 37,5 mg al giorno rispetto al placebo. L'endpoint primario era la sopravvivenza mediana libera da progressione ed endpoint secondari erano OS, ORR, TTP, la durata della risposta e della sicurezza. Kaplan-Meier stima di PFS mediana è stata di 11,4 (7,4-19,8) per i pazienti trattati con sunitinib e 5,5 (3,6-7,4) per i pazienti del gruppo placebo (p <0,001). Risposte tumorali sono stati valutati utilizzando RECIST 1.1 e ORR erano del 9,3% (3,2%, 15,4%) (p <0,0066) e la mediana (range) la durata della risposta è stata di 8,1 (1,0-15,0) mesi. I tipi più comunemente osservati 3 e 4 eventi avversi nel gruppo sunitinib sono stati neutropenia, ipertensione, sindrome mano-piede, dolore addominale, diarrea, astenia e affaticamento. Poiché  un'analisi ad interim ha dimostrato un netto vantaggio in termini di a sicurezza e di efficacia del braccio "sunitinib" vs placebo, lo studio è stato interrotto troppo presto per valutarne i vantaggi in termini di sopravvivenza globale.

In conclusione, nonostante i progressi fatti,  resta comunque difficile orientarsi nel panorama terapeutico dei NET. Le recenti acquisizioni nell'ambito dei NET, e dei NET pancreatici in particolare, ne hanno profondamente cambiato l'approccio farmacologico. Da un lato è sempre più evidente la consapevolezza che i regimi di chemioterapia ritenuti standard finora, sono invece del tutto inadeguati e rimane molto forte la necessità di sviluppare studi clinici basati su una  metodologia statistica più rigorosa e soprattutto su criteri aggiornati di valutazione.  

Dall'altro, con l'approvazione delle terapie a bersaglio molecolare siamo passati alla necessità di dover scegliere tra più terapie biologiche, come l'everolimus o il sunitinib.

Pertanto, resta il quesito su come orientarsi per una scelta terapeutica realmente oculata.

Volendo schematizzare, potremmo suggerire  che per i NETs indifferenziati a rapida crescita, avanzati e/o metastatici, la prima linea di trattamento resta comunque la chemioterapia con CDDP + VP16, che ha dimostrato comunque un response rate del 67% e una durata della risposta di circa 18 mesi. Bisogna sottolineare però almeno due aspetti: innanzitutto che gli studi in merito sono ritenuti inconsistenti sia per lo spessore statistico sia perché i dati relativi all'attività terapeutica non facevano riferimento ai parametri RECIST ed in secondo luogo che questo setting di pazienti resta a cattiva prognosi con precoci riprese di malattia e una sopravvivenza a 2 anni al di sotto del 20%.  

Per i NET ben differenziati, i regimi con STZ benché approvati dall'FDA da circa un trentennio non sono ampiamente accettati per tossicità e per la scarsa riproducibilità dei dati in termini di attività e sopravvivenza. La combinazione di TMZ + capecitabina, invece , rappresenta un valido regime che per i dati di safety attività e maneggevolezza sembra destinato a soppiantare i vecchi schemi.

Una maggiore conoscenza dei meccanismi molecolari alla base dello sviluppo dei NET e la disponibilità di nuovi farmaci hanno profondamente ne cambiato l'approccio terapeutico.

Nuovi studi hanno dimostrano l'utilità di nuove combinazioni di farmaci antitumorali, d'altra parte, la FDA ed EMEA, insieme al NCCN, hanno approvato nel 2011 l 'uso di everolimus e sunitinib per pNET

E come facciamo a scegliere tra everolimus e sunitinib?

In considerazione dei lavori pubblicati finora, sembrerebbe più opportuno utilizzare la chemioterapia nei pazienti con malattia al limite della resecabilità e grossa massa tumorale, in cui è essenziale ottenere rapidamente risposte obiettive. Se invece lo scopo primario del trattamento è di ridurre il livello dei biomarcatori e di controllare la gravità dei sintomi in pNET funzionanti potrebbe essere corretto un controllo sistemico della malattia con analoghi della somatostatina, everolimus, o una combinazione di entrambi.

Inoltre, il miglior trattamento dei pNET potrà essere scelto osservando i dati di sopravvivenza. In questo caso, in entrambi gli studi di Yao e Reymond, l'alta percentuale di pazienti che sono passati dal braccio placebo in quello sperimentale, ha influenzato i dati relativi alla sopravvivenza globale, il trattamento con everolimus o sunitinib hanno offerto dati in mediana di PFS abbastanza sovrapponibili (11.0 vs 11.4 mesi, rispettivamente) anche se va sottolineato che lo studio di fase III con sunitinib presenta  diversi limiti. La chiusura  anticipata dello studio può aver portato ad una sovrastima dell'effetto del trattamento, come la PFS  in pazienti trattati con sunitinib e la mancanza di un campione statistico abbastanza solido non ha consentito una sottoanalisi più rigorosa.

Infatti, la Food and Drug Administration (FDA) da una rianalisi dei dati dello studio di Reymond sul sunitinib ha valutato una PFS mediana inferiore, e cioè di 10,2 mesi rispetto a 11,4 mesi originariamente pubblicati.

 Esattamente il contrario si è verificato durante l'analisi dei dati su everolimus. Infatti, per lo studio di Yao, i risultati della valutazione centrale ed indipendente della mediana di  sopravvivenza libera da progressione erano simili se non migliori rispetto alla valutazione da parte dei ricercatori. La mediana della sopravvivenza libera da progressione in base alla valutazione centrale è stata di 11,4 mesi (95% CI, 10,8-14,8) con everolimus, rispetto ai 5,4 mesi (95% CI, 4,3-5,6) con placebo.

Infine la scelta di una terapia biologica rispetto all'altra potrebbe essere dettata dal profilo di tossicità del farmaco e dalle stesse comorbidità dei pazienti.

Per everolimus, i più comuni eventi avversi registrati (> 30%) sono stati stomatiti, rash, diarrea e affaticamento, mentre quelli di grado 3/4 correlati al trattamento erano stomatite, anemia, e iperglicemia.

Con sunitinib , i più comuni eventi avversi (> 30%) sono stati diarrea, nausea, astenia, vomito e stanchezza, mentre quelli di grado 3/4  più frequentemente correlati al trattamento includevano neutropenia, ipertensione, e eritrodisestesia palmo-plantare. Gli studi con sunitinib hanno escluso pazienti con comorbidità cardiache. Quindi non si conosce l'effetto del farmaco in pazienti cardiopatici.

In definitiva , si suggerisce l'uso dell'everolimus in pazienti con pNET funzionante in progressione, inoperabile e / o metastatico e quelli con sintomi non controllati / refrattari e alti livelli di  biomarcatori. Sicuro in  pazienti con storia cardiaca. Mentre il sunitinib potrebbe essere maggiormente consigliato a pazienti con diabete instabile  o in coloro che

richiedono terapia a lungo termine di steroidi. Il sunitinib però non può essere la scelta più appropriata per pazienti con significativa storia cardiaca (ad esempio, aritmia, malattia coronarica , cardiomiopatia).

 

 

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